Articoli su Giovanni Papini

2005


Giona Tuccini

Il pragmatismo di Gian Falco: Giovanni Papini 1903-1907

Pubblicato in: Chroniques italiennes (Sèrie web), fasc. 7, pp. 1-34.
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Data: marzo 2005



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Deus noster ignis consumens est.
S. PAOLO, Agli ebrei, XII, 29.



   1. Campagna per un «forzato risveglio»

  La storia di Giovanni Papini è tutta rilevabile nelle sue campagne culturali, in cui possiamo cogliere il primo grande paradosso dello scrittore, lo scarto sostanziale tra la sua rumorosa arroganza intellettuale e la vita privata semplice, per niente spettacolare. Con molta evidenza le sue pagine discoprono il travaglio, il ghiribizzo, la volubilità degli umori di un uomo genuino e introflesso che, nell'esercizio del suo mestiere di scrittore contraddittorio e battagliero, sembra preferire il clamore della polemica al silenzio, lo sfoggio alla discrezione. Questa naturale antitesi è stata materia di un equivoco: molti critici non colsero subito che dietro un cervello agguerrito si velava un'anima ascetica e sentimentale e, sin troppo a lungo, si è detto di lui come di un esibizionista insatirito. Solo negli ultimi anni questa dissonanza si è largamente risolta, quando all'immagine del «terribilista» renitente è subentrata quella scura di un uomo meditativo, raro di forza, affinato nello spirito e pacificato nella solitudine della malattia. L'eroismo di Papini, le impennate e gli sfarzi, sono messi a paravento di un cuore elegiaco e di un intelletto giudizioso. Sono le «drappeggiature», le « trine graziose» con cui, secondo la voce del


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   crepuscolo dei filosofi, Nietzsche aveva cercato di nascondere il suo triste segreto e la sua debolezza 1.
   Papini rivela presto una certa inclinazione alla riflessione, si appassiona alle astrazioni del pensiero, traendone pungoli e ubriacature infervorate ma anche altrettante disdette precipitose. Già allora nella superficie c'era la profondità. La sua erudizione, il suo personaggio rientrano, in un primo momento, nella logica del decadentismo europeo — anche al di là dell'arbitrato dannunziano — con riflussi, nella sua cultura, di aspetti protoromantici storicamente tardivi. Ne testimoniano lo spiccato individualismo sconfinante nell'egoismo e nel titanismo, l'attivismo matto e illimitato dell'avventuriero antisociale, la smentita e la demolizione delle verità tradizionali, il crollo e il naufragio quali conseguenze di uno scettico disperarsi, nonché l'atteggiamento «del fare per il fare, del distruggere per distruggere, dell'innovare per innovare», come ha scritto Aurelia Bobbio 2. Papini ha vissuto la sua giovinezza nell'Italia umbertina, nella quale una specie di materialismo ottimistico conviveva con la retorica tradizionale dello spiritualismo nostrano. In tale contesto, l'estetismo dannunziano, individualista e aristocratico, aveva instillato nei cuori della giovane generazione, un germe «irregolare» che metteva in crisi i valori ottocenteschi 3.
   Il «Leonardo» 4, quale giornale di eversione del Novecento italiano, era stato anticipato da alcune rassegne, come «Il Convito» di De Bosis e dal primo


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«Marzocco», anche se a quest'ultimo il foglio di Papini si opporrà polemicamente, come un'impetuosa e ardente manifestazione di giovinezza contro l'accademismo cattedratico. All'inizio del XX secolo chi ricorda più Lombroso, se non sarcasticamente? Chi ha più il coraggio di leggere Ardigò? Chi cita ancora l'autorità di Spencer? Giorgio Luti, parlando delle riviste fiorentine d'inizio secolo, ha tracciato un quadro essenziale ed esatto della obsolescenza di queste tendenze:

   Anche in Italia infatti il positivismo dell'Ardigò, del Sergi, del Lombroso, l'anticlericalismo bigotto, la politica gretta della sinistra democratica, tutta la mediocrità mortificatrice dello spirito, in cui ristagnava la vita italiana dopo il '70, aveva presto stancato gli uomini migliori. E non solo i giovani 5.

   All'inizio del Novecento si ha la sensazione di pensare di più e tutto quel considerare la vita tra il materiale e il positivo scompare del tutto a partire con «Il Leonardo». Si tratta di un risveglio dei valori dello spirito, diremo anche di un impreciso sentimentalismo mistico e di un certo spiccato interesse per le questioni religiose. Nel 1903, lo stesso anno d'inizio della pubblicazione della «Critica» di Benedetto Croce, i giovani del «Leonardo» — Prezzolini (Giuliano il Sofista), Borgese, Cecchi, De Karolis, Spadini, Bodrero, Papini (Gian Falco) — sono intellettuali tumultuosi ed eterocliti, diversi per formazione e sensibilità, che intendono mettere in questione le origini stesse della filosofia, provano insoddisfazione e insofferenza nei confronti dell'accademismo, sconfessano la cultura positiva e materialista. Sono pieni di


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estro e di baldanza, ricchi d'ingegno e poveri di tasca, mai preoccupati delle questioni materiali. In un secondo tempo si uniscono nel collaborare al gruppo fondatore altre due personalità, Calderoni e Vailati, con i loro trasporti e irrigidimenti giovanili, scrivendo specialmente di filosofia, ma anche di letteratura, di arte, di politica. Vogliono, per lo più, una filosofia del concreto, realistica e fattuale, sempre più pragmatica, ove si rivendica la priorità della volontà — il valore pratico del conoscere — nel momento in cui si riconosce al pensiero la possibilità di cambiare il volto della realtà. Si vuole creare un proprio mondo spirituale, senza respingere la realtà esteriore, sottoponendola anzi al regime trasformatore dello spirito:

   Germogliato su dalla corrente della critica kantiana, insinuatosi nei procedimenti di tutte le scienze, anche le esatte, il pragmatismo rifiuta la pretesa aristotelico-scolastica di raggiungere attraverso la percezione sensibile l'essenza delle cose; nega quindi la possibilità di quella definizione de vero data dai dialettici della Scuola: «adaequatio rei et intellectus». I sistemi perciò che credono di spiegare i problemi dell'esistenza, non hanno, teoricamente parlando, alcuna rispondenza nella realtà, e sono delle formulazioni arbitrarie, per quanto spontanee, di materie soggettive di risolverli. [...] Il pragmatismo trasforma così il concetto del vero; non è più soltanto ciò che risponde all'essenza delle cose esteriori: ma è vero piuttosto ciò che, essendo una loro figurazione soggettiva, serve però in un determinato momento all'indirizzo pratico delle energie umane. Tutto è buono e tutto è vero, quello che è utile: non già utile nel senso di un edonismo volgare, ma utile in un profondo significato psicologico, in quanto aiuta e moltiplica le capacità dell'individuo, arricchisce la sua vita intima ed esteriore; intensifica la sua operosità 6.

   Come emerge bene da Il crepuscolo dei filosofi, è la necessità d'immaginare un mondo «più perfetto» dell'attuale a rendere religiosi, ma anche il tentativo di «ottenere di vivere» attraverso certe credenze e certe azioni. Non ultimo il desiderio di essere aiutati da una potenza superiore che, soltanto nel pieno abbandono dell'uomo, può dispensare felicità. Soprattutto, si vuole passare dalla parola all'azione e Papini, che più di ogni altro sente questa esigenza roderlo come il tornio, decide di scrivere uno dei suoi interventi


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ascetici e fantasiosi di «pescatore d'uomini» che viene a «ignem mittere in terram»:

   Io ebbi, a Livorno, la festa di un tramonto meraviglioso. Pareva che in fondo al mare sorgesse un arcipelago di monti di rame e di fiamme. E su quel rosso s'innalzavano le ombre nere delle barche da pesca. Passavano lievemente, lentamente, misteriosamente, come fantasmi, come in un sogno. Il mare pareva dissolversi per la dolcezza in un chiarore evanescente, e le piccole navi lo solcavano ad una ad una, colla prora nera, collo scafo nero, colle vele nere, come tornassero da qualche divino funerale. Io pensavo, guardandole dalla riva, e come sempre, io davo un senso nascosto a quelle paranze, cercavo in loro una mia parola. Pensavo ch'esse tornavano al porto, in un tramonto, cariche di pesci rapiti al mare e la leggenda evangelica mi tornò alla mente, la leggenda apostolica dei pescatori di Galilea che una magica parola trasformò in pescatori di anime per il vasto mondo. Anche noi amici del Regno — pensavo sorridendo fra me dell'inaspettato confronto — siamo dei pescatori di uomini. Anche noi cerchiamo, colla nostra parola di risvegliare nelle anime infiacchite dei nostri contemporanei le antiche energie della vita e della razza, di ridare un senso alle parole che si ripetono senza più comprenderle. Anche noi vorremmo compiere il miracolo di far camminare i paralitici e di far vedere i ciechi e forse — chi sa? — di risuscitare i morti. Infatti noi ci ostiniamo a risvegliare una grande moribonda, la borghesia. Noi vorremmo che questa acciaccata padrona facesse ancora, dal suo trono, qualche atto di difesa, invece di accarezzare colla tremula mano i rivoltosi che stanno per trarla all'ignominia fra oscene grida. Vorremmo che questa dominatrice desse l'ultima battaglia e che morisse — se dovesse morire — con l'onore della difesa e non con la vergogna dell'abbandono. Ora noi andiamo dicendo queste e simili cose per le città di Toscana e vogliamo che queste cose siano sentite e vissute e che queste parole siano solo un proemio letterario all'azione necessaria.. [...] Ci vogliono degli spiriti liberi, dei vecchi spadaccini d'idee, dei temerari senza debolezze per comprenderci. Di questi cominciamo a trovarne e ce ne rallegriamo. Andiamo passando dalla parola scritta alla parola detta, dalla carta stampata alla sala ascoltante. È già un principio di azione. I pescatori di uomini non torneranno più coi navicelli deserti — forse la loro piccola barca diventerà angusta e salperanno all'alba su navi più grandi con più fiere canzoni. E in bel tramonto sanguigno innalzeranno sopra i cupi triangoli delle vele la bella fiaccola della vittoria 7.


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   La religiosità del Pragmatismo è stata oggetto di uno studio assiduo da parte di alcuni pensatori coevi (Caird, Eucken, James) che — come è stato ampiamente assodato dalla critica 8. — hanno «valutato le manifestazioni dell'attività umana per apprezzare ogni fenomeno interiore». Già Baldini aveva osservato in proposito:

   Il Caird e l'Eucken partono visibilmente da un presupposto intimamente intellettualistico; che cioè la religiosità nasca dalla percezione d'un rapporto fra lo spirito e qualcosa di estraneo ad esso: il Caird scorge nella nozione religiosa della divinità la conciliazione psicologica fra le coscienze contrastanti dell'io e del non-io; l'Eucken accenna a rapporti vagamente religiosi fra l'essere spirituale e la totalità imponente dell'universo. Lo James solo, che è appunto uno dei più operosi propagandisti di pragmatismo, nel suo noto volume sulle Varietà della coscienza religiosa abbandona ogni ricerca circa il contenuto astratto e ideologico della religiosità, per porsi sul terreno psicologico ed esaminare questa forma dell'energia umana nelle sue manifestazioni primitive e spontanee, talora anche sub-coscienti, anteriori ad ogni elaborazione intellettualistica 9.

   2. L'impresa filosofica Il crepuscolo dei filosofi

   In un articolo del 1903, intitolato Morte e resurrezione della filosofia 10. Gian Falco scrive che il suo intento è quello di cercare il valore della filosofia e non delle filosofie, di rinnovarne il compito e il contenuto. Condanna l'idea di una filosofia contemporanea ridotta a «notaia di cose», annuncia la morte della filosofia tradizionale a causa della sua incapacità di essere «razionale, universale e rivelatrice di realtà», ma ne indica anche una possibile rinascita, nel rifiuto dei compiti ad essa assegnati in passato, nella rinunzia ad una conoscenza astratta, a favore invece del «possesso intero della realtà». Questo stesso atteggiamento resterà illiquidato nel Crepuscolo dei filosofi, altra autobiografia intellettuale dantesca e wagneriana, in cui l'autore si divertirà ad


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analizzare i relitti più importanti del passato per metterne a nudo — con allegria cattiva e fanciullesca — le fragilità ben nascoste dietro le imponenti impalcature. Lo smontaggio dei vecchi scafi avrebbe rinnovato piano piano lo stato maggiore dell'impresa filosofica contemporanea; quella che aveva provato ad essere «conoscenza unificatrice e universale della realtà» dovrà essere ora «una ricerca e creazione pratica del particolare e del personale». Ne Il crepuscolo dei filosofi, la questione prettamente filosofica è ridotta al minimo vitale e la storia della filosofia viene qui scambiata per psicologia degli individui. Affinché il rinnovamento spirituale, messo in atto e in forma da Gian Falco, possa davvero attualizzarsi, Kant dovrà essere visto come «un architetto senza fortuna che uccise coloro che doveva difendere» 11, Hegel un «romantico antiromantico», un «mago Merlino» che ha fatto della «filosofia da negromante, una dottrina da incantatore» 12, Schopenhauer un «vecchio di spirito [...] esperto degli umani vizi e del valore» 13, Comte un «poeta fallito e un pontefice abbandonato» 14, Spencer un «meccanico disoccupato» 15, prestato alla filosofia, Nietzsche un debole e un morboso 16. Con queste definizioni Papini vuole portare un contributo dubitativo che dissolva la credibilità di «quelle tre o quattro idee che ciascuno di loro ha inventate o ha rese celebri» 17. ma vuole specialmente presentare un programma di liberazione dalla «vanità, la vacuità, l'inutilità e la ridicolaggine [...] della filosofia e dei filosofi» che agli inizi del Novecento «corre nelle scuole e nei giornali». Da queste considerazioni la polemica di Gian Falco prende vigore, nel Crepuscolo dei filosofi, con taglienti giudizi che riguardano più gli autori che la loro dottrina. Kant viene accusato di aver intrattenuto con filosofi amici e nemici polemiche improduttive, di essersi infine perso nelle contraddizioni di problemi immaginari; il sistema di Hegel — cui viene riconosciuto genio artistico — risulterebbe un vaniloquio privo di contenuto; Schopenhauer viene addirittura avvicinato a Rossini per aver creato, con il suo insegnamento, la grande opera buffa della filosofia tedesca; Comte è ritenuto un profeta fallito che ha espresso con prosa «indigesta» sciocchezze circondate da illusioni; Spencer va combattuto per il suo universalismo ostile alla personalità, per il suo evoluzionismo livellatore; Nietzsche, infine, nonostante tutta la sua


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passione e il suo lirismo, è ritenuto un uomo fuori dal tempo, smarrito nella modernità e capace solo di impadronirsi della cultura più raffinata per rinnegarla.
   Del resto, nella prefazione, Papini aveva dichiarato di non voler firmare un libro di buona fede, ma un libro di passione, ingiusto, inuguale, senza scrupoli, contraddittorio, «insolente come tutti quei libri di quelli che amano e odiano e non si vergognano né dei loro amori, né dei loro odi» 18. E sempre nel Crepuscolo dei filosofi, capitolo finale, prova ad avanzare, più che una critica del passato, un «terribile programma» per l'avvenire:

   La necessità di allargare i mezzi d'azione, la vanità dell'universale, l'utilizzazione dello spirito, la necessità di rifare il mondo invece di limitarsi a contemplarlo. Certe idee, come l'importanza della previsione e l'aspettativa dell'Uomo-Dio, sono in me anche più antiche e ad esse tengo sempre più fortemente 19.

   Gli strumenti per poter «cambiare il mondo» sono riposti nell'uomo, nella sua azione. Per azione Papini intende la capacità di mutare, «il cambiamento in cui l'uomo entra come causa volontaria» 20. Per azione non intende soltanto «l'accrescere e il conquistare, ma anche il rigettare e il sopprimere» 21, abiura che poi spiega l'atteggiamento distruttivo da lui assunto nel Crepuscolo dei filosofi. In parole semplici, Papini rivendica — contro le metafisiche razionalistiche del passato — l'efficacia pratica della filosofia, non solo il suo valore contemplativo, ma anzi creativo ed operativo, sottendendo una posizione — assolutamente antintellettualistica — in stretta concordanza con il «vitalisrno» e il «creazionismo» di Henri Bergson, nonché con il pragmatismo di William James. Il filosofo statunitense sosteneva l'influenza della volontà sulla credenza, e di questa sulla realizzazione della cosa creduta. Peirce inoltre — in un articolo considerato il discorso-proclama del Pragmatismo — asseriva che, nel caso le idee non fossero riscontrabili con l'esperienza, al dubbio che uccide l'azione si doveva preferire l'opinione più adatta a compiere azioni in grado di realizzare i nostri desideri. Ora, il richiamo all'esperienza interiore conduce Papini a confidare nella rinascita della filosofia, i cui compiti consistevano nello studio sorvegliato dei fatti


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psicologici, nell'esplorazione delle potenze occulte dello spirito, nell'addentramento nella realtà viva, per padroneggiarla e trasformarla invece di gravitarle attorno con un ricamo complicato di concetti. In tal modo, dopo aver preso di punta il filisteismo borghese e professionale dei filosofi e dopo aver smantellato, con fervore idealistico, le più autorevoli riflessioni filosofiche di Kant e di Hegel, di Shopenhauer, di Nietzsche, di Comte e di Spencer, Papini passa a Blondel, Renouvier, Remacle. Forse la sua adesione più vera è quella alla teoria pragmatista, per una predisposizione senza condizioni (date dall'ostinato orientamento della mente dell'autore, attraverso cambiamenti e pentimenti di tutti i generi), come si impegna a sostenere nell'Avvertimento in testa al volume Sul pragmatismo:

   Io, in particolar modo, ero predisposto al Pragmatismo. Fin dal 1902 lessi alla Società Italiana d'Antropologia una mia memoria sulla Teoria psicologica della previsione nella quale uno de' principi più importanti della teoria pragmatista (il valore della prevedibilità) era, sia pure con ingenuo e contorto frasario, illustrato e difeso. Sulla fine del 1903 esposi nel Leonardo — nello scritto che apre questo volume — una via veduta di pretto spirito pragmatista sulla trasformazione della filosofia. Nel 1904, al congresso di filosofia di Ginevra, nella mia comunicazione sugli Extrêmes de l'Activité théorique parlai, fra i primi in Italia, del Pragmatismo, del quale io stesso, fino a poco tempo prima non avevo sentito parlare. Nel mio pensiero, dal 1903 a oggi, sono stati sempre fermi alcuni punti che sono poi il succo del Pragmatismo: cacciata dei problemi senza senso e delle frasi vaghe — studio e riforma degli strumenti del pensiero — tendenza al particolare e al pluralismo piuttosto che all'universale e al monismo — aspirazione a una maggiore potenza della volontà e ad un'efficacia diretta dello spirito sulle cose. Queste idee si ritrovano nei primi articoli del Leonardo, in tutti quelli compresi in questo libro, nella conclusione teorica del mio Crepuscolo dei filosofi e perfino, sotto forma più artistica, nelle mie novelle e nell'Uomo Finito 22.

   Se «La Critica» di Croce annuncia l'idealismo critico, il «Leonardo» è il campanello dell'idealismo mistico; ma è, soprattutto, la prima spontanea rivelazione del genio dì Papini. Già da quel momento egli appare come uno dei personaggi più ricchi e sconcertanti del panorama culturale italiano. Il cominciare con qualche domanda imbarazzante o col dire qualche contumelia


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irriguardosa è il suo modo di fare amicizia col mondo. E questo perché — ce lo conferma ancora Prezzolini — si è abituato a non essere amato. Papini affronta i problemi con un approccio squisitamente personale, come se la storia e la società davvero non esistessero. Su di lui è concentrato il dramma del pensiero, sulla potenza artistica e spirituale dei suoi sogni: tutto ciò che fa è opera fortemente sua e si convince sempre più di essere «artista e nient'altro». La filosofia stessa lo ha sospinto a vele tese verso l'arte. La sua maniera di filosofare è quanto di più arioso e di compatto ci si potesse aspettare. È un filosofare letterario. Così come ci è dato apprendere dal Programma sintetico, nella vita si ritiene «pagano e individualista», nel pensiero «personalista e idealista», nell'arte «amante della trasfigurazione ideale della vita». L'esaltazione volontaristica e messianica lo induce a considerare, con più partecipe interesse, l'arte come creazione, la rivista come un individuo vivente. Già altri pensieri irrazionalistici — specie quelli di Nietzsche e Shopenhauer — gli avevano offerto una suggestiva visione dell'arte quale redentrice del mondo.
   Nietzsche aveva prospettato il sogno di una potenza nuova e straordinaria che l'uomo avrebbe dovuto acquisire ponendosi al disopra di tutto l'esistente. Si doveva trovare nella filosofia una vita superiore dello spirito che avrebbe potenziato tutto l'essere. Non ultime le affermazioni di Ruskin, diffuso in Italia da Angelo Conti, che pungolavano gli spiriti cercanti a sorprendere nell'opera d'arte la rivelazione del mistero profondo delle cose. Inoltre la smania tipicamente romantica e decadente di evasione dal reale quotidiano, superficiale, incoraggia Papini a costruirsi una realtà più vera, più profonda, fantastica e ai limiti della follia, su cui esercitare autoritariamente una piena padronanza. Per Gian Falco, la filosofia deve incontrare l'arte, perché solo nell'invenzione letteraria lo scrittore può veder realizzata la sua ambizione di Uomo-Dio, può cioè attuare quei poteri creativi che lo rendono simile alla divinità:

   L'arte è un tentativo di modificare la nostra visione delle cose; di offrirci dei surrogati, delle scelte, degli estratti, delle trasformazioni del mondo; di educarci a scoprire e comprendere certi lati meno visibili della natura; di arricchire il nostro spirito di sentimenti e desideri nuovi; di far salire a una temperatura maggiore quelli che già possediamo e infine, in epoche di civiltà molto raffinata, di trasformare la natura stessa forzandola ad assumere aspetti simili ad essa. [...] L'Arte è certo uno strumento potente di modificazione del mondo e di noi stessi [...] Infatti le opere d'arte sono saggi di rifacimento e d'interpretazione del mondo che servono ad allargare la


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immaginazione e la comprensione di coloro che non sono artisti, e, in certi casi, giungono a modificare non solo la nostra visione del mondo ma il mondo stesso 23.

   Secondo Papini, l'Uomo-Dio ha tre significati: cristiano (l'idea dell'incarnazione, Dio che si fa uomo per redimere gli uomini, come Cristo, o per addottrinarli, come Budda); mistico (l'idea di fusione, dell'anima personale che si confonde con l'essere universale e diventa divina facendosi e sentendosi parte di Dio); magico (l'idea di imitazione, dell'anima che tende ad acquisire i poteri attribuiti a Dio e diventa divina in quanto le cose sono parti obbedienti di essa). Nel caso di Papini, viene adoperata l'espressione Uomo-Dio nel senso magico, che inverte cioè i rapporti tradizionali tra l'uomo e la divinità:

   Essi [gli uomini] non vogliono restare dinanzi al mondo come spettatori e contemplatori, essi non si consolano abbastanza coi mondi immaginari offerti a loro dall'arte o dalla religione. Vogliono che il mondo reale divenga simile alle loro immaginazioni e subisca le loro volontà. Essi saranno così obbligati a trovare ancora altre immaginazioni, sempre più strane e grandiose, e a trasformare sempre più il mondo. Le cose debbono divenire veramente dei giocattoli dell'uomo — l'universo deve venire la docile creta colla quale l'uomo-Dio darà forma ai suoi fantasmi. La forza che dovremmo usare per operare questo capovolgimento della storia del mondo — lo spirito — è pronta. Non resta che da scoprire come esso opera già in casi straordinari e fame uno strumento obbediente ai nostri desideri e alla nostra fantasia e dominatore delle cose. L'arte e la religione ci daranno gli ideali, la scienza e l'anima ci daranno la potenza per farli reali 24.

   In altri termini, la creazione di mondi immaginari, ad opera dell'uomo, è capace di agevolare il cambiamento del mondo reale. Il mondo dell'arte, della religione, della scienza e della filosofia non devono ricopiare la realtà ma devono essere creazioni di cui la realtà fornisce i «materiali» che l'uomo modifica secondo i suoi interessi e i suoi fini: ne consegue che «tutti i nostri sforzi debbono tendere ad avvicinare sempre più il mondo reale ai mondi ideali» 25. Eppure, l'incontro della filosofia con l'arte significa anche una


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ricaduta nell'estetismo, dal momento in cui per lui l'arte è «nostra ragion d'essere, di accettar tutto con gioia». In un primo momento, nel «Leonardo» prevalgono orientamenti estetizzanti legati alla tradizione classica. A partire dal Programma sintetico, apparso sul frontespizio del primo numero con un'incisione a firma di De Karolis, rintracciamo i numerosi interessi dei primi leonardiani che — come abbiamo accennato poc'anzi — concepiscono l'arte come «trasfigurazione ideale della vita», della bellezza quale suggestiva scoperta di una vita quieta e interiore:

   Un gruppo di giovini, desiderosi di liberazione, vogliosi de'universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale si son raccolti in Firenze sotto il simbolico nome augurale di «Leonardo» per intensificare la propria esistenza, elevare il proprio pensiero, esaltare la propria arte. Nella Vita son pagani e individualisti — amanti della bellezza e dell'intelligenza, adoratori della profonda natura e della vita piena, nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea. Nel Pensiero sono personalisti e idealisti, cioè superiori ad ogni sistema e ad ogni limite, convinti che ogni filosofia non è che un personal modo di vita — negatori di ogni altra esistenza di fuor del pensiero. Nell'Arte amano la trasfigurazione ideale della vita e ne combattono le forme esteriori, aspirano alla bellezza come suggestiva figurazione e rivelazione di una vita profonda e serena. Fra l'espressioni delle loro forze, de' loro entusiasmi, e dei loro sdegni sarà periodico intitolato «Leonardo» che pubblicheranno in fascicoli di 8 pagine ornati d'incisioni lignee ed impressi con ogni cura 26.

   Nelle pagine di chiusura de Il crepuscolo dei filosofi, Papini s'interroga sul divenire della filosofia e risponde che «essa può rimanere come genere letterario. Le metafisiche, colle loro larghe visioni e le loro suggestioni immaginose, potranno prendere degnamente il posto dei poemi epici» 27. Nei migliori dei casi, dacché la filosofia non può esimersi dalla «bramosia d'universalità», può diventare «la teoria più generale possibile, cioè la teoria dell'azione»:

   Se l'agire, cioè il cambiare, è il verbo più astratto al quale si può ridurre tutta la vita, una teoria dell'agire sarà la teoria più astratta possibile. Essa dirà cos'è l'azione e quali sono i modi nei quali avviene l'azione e quali sono le varie categorie di azioni e insegnerà come adeguare i mezzi ai fini e studierà la


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compatibilità dei fini. Essa indicherà allo scienziato quali sono i vari modi di azione non ancora possibili o esperimentati e consiglierà a ciascuno di studiare se stesso, le sue forze, i suoi fini, le sue possibilità. Questa teoria dell'azione, o Pragmatica, sarà l'ultimo prodotto del mondo teorico perché rispetto ad essa tutti gli altri si presentano come mezzi. Essa studia l'azione in generale e gli altri sono dei mezzi particolari per azioni particolari 28.

   3. Lo Spirito e la Psiche

   Mentre Gian Falco è sempre più attento all'esteriorità del dato naturale e spirituale, Giuliano il Sofista ripara alla lettura dei mistici indagando in essi l'insegnamento per conseguire una ricchezza spirituale più stabile e, al contempo, il dominio assoluto di sé, l'orchestrazione illuminata di tutte le energie attorno ad una certezza e ad un unico fine. Ma entrambi prestano la loro attenzione anche agli studi coevi di psicologia. Perfino Giovanni Vailati — spinto da un'autentica volontà di rinnovamento e di rottura con la tradizione filosofica — rivolge nuova attenzione alla riflessione psicologica, collaborando con riviste scientifiche quale la «Rivista di psicologia» — fondata nel 1905 da Giulio Cesare Ferrari — che, come «Il Leonardo», proponeva il rinnovamento degli studi psicologici e l'aggiornamento culturale attraverso la conoscenza delle nuove correnti di pensiero. Ferrari stesso tradusse, nel 1901, i Principi di psicologia di William James, manuale che conobbe una vasta diffusione, facendo conoscere il filosofo statunitense in Italia prima ancora che nel resto dell'Europa. Ferrari aveva integrato il testo con note in cui l'orientamento jamesiano appariva opposto al purismo e all'artificialismo da laboratorio di Wundt e della psicologia tedesca in genere. Nel numero di giugno-agosto 1905 de «Il Leonardo» viene pubblicata, col titolo La concezione della coscienza, la traduzione del discorso che il grande pensatore americano aveva pronunciato quello stesso anno a Roma, nell'ultima seduta generale del V Congresso Internazionale di Psicologia 29. Un anno prima, nella rubrica «Alleati e Nemici» de «Il Leonardo», Giuliano il Sofista aveva presentato la versione italiana de Le varie forme della Coscienza Religiosa di James, dispiacendosi di trovare, in testa al volume, una prefazione del positivista Roberto Ardigò che,


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secondo lui, dimostrava che «il vecchio teologo o non ha letto, o non ha capito il libro» 30. In effetti Ardigò lodava James per avere «escluso dal fenomeno della coscienza religiosa ogni influenza non naturale» e per aver messo in luce «magistralmente, come l'esaltazione mistica porti assai spesso al frivolo, all'inutile, al ridicolo, al ripulsivo, al dannoso» contrariamente a quanto osservava Prezzolini:

   Ora questo libro è invece uno dei più importanti sintomi del ritorno dei filosofi ai valori qualche tempo fa fuori moda, cioè quelli del soprannaturale. E basta leggere a pag. 212-213 dove il James vuole mostrare che le sue analisi non escludono, anzi rendono possibile per la via del subcosciente l'influenza di un soprannaturale, se esso esiste. E basta leggere a pag. 207 dove il James riconosce pel caso della conversione di S. Paolo e per quella del colonnello Gardiner, «utile e razionale, qualche ipotesi più mistica e teologica» di quelle materialiste 31.

   Inoltre, nella stessa rubrica del numero leonardiano del 10 novembre 1903, Giuliano il Sofista segnalava ai lettori della rassegna La Meditazione. Appunti di psicologia di Giovarmi Antonio Colozza, parlandone come di «un trattato scientifico, un'opera pedagogica, uno studio storico» che non sorge dall'esperienza personale dell'autore, ma da quella degli altri. Nel recensire questo libro, Prezzolini ne riconosce la buona qualità e ne apprezza l'intento di combattere l'atteggiamento positivista e il pregiudizio che «mediazione sia contrario ad azione» 32: tra le esperienze citate, quella di Cromwell, trasformatosi da gran generale ad acuto uomo politico, a capo religioso.

   La diversità esistente tra il pragmatismo di Papini e Prezzolini — volti a James — e quello di Vailati e Calderoli — interessati specialmente a Peirce — deve essere tenuta in considerazione per comprendere la loro riflessione. A tale proposito scrive Quaranta:

   Se il pragmatismo di Peirce è continuato nelle correnti epistemologiche più significative del Novecento, ed ora si scorge in lui una concezione


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fallibilistica della scienza che l'avvicina a Popper (A. J. Ayer); James continua in alcuni funzionalisti della scuola di Chicago, niente è criticato e respinto dal comportamentismo watsoniano. Infine è stato recentemente notato che l'intuizionismo pragmatico-religioso di Papini anticipa «molti aspetti dell'odierna nordamericana psicologia umanistica di Abraham Maslow» (Sadi Marhaba), sorta sulla base del rifiuto del comportamentismo e della psicoanalisi. Questo occorreva subito precisare, per ribadire che si tratta di due orientamenti la cui presenza, parallela e importante, ha inciso profondamente nella cultura contemporanea e continua a esercitare più o meno sotterranee influenze, oltre che un recente risveglio storiografico 33.

   Il primo scritto filosofico di Papini, sensibile alle istanze degli studi psicologici del tempo, è la Teoria psicologica della previsione, uscito nel 1902 nell'Archivio per l'Antropologia e l'Etnologia. Lo studio s'inscrive ancora all'interno del positivismo critico: la previsione viene qui considerata nella prospettiva di Comte, in quanto Papini la definisce come «la deduzione sicura dei fatti che avverranno dalla sistemazione dei fatti passati». E continua:

   Essa [la previsione] non è dunque possibile che quando esistono dei rapporti immediati ben certi che noi possiamo proiettare, per analogia, nel futuro. In altre parole essa, non può avvenire che dopo la legge, cioè è il fatto ultimo da noi conosciuto del lavorio gnoseologico della psiche 34.

   Dal brano citato risulta che, per Gian Falco, non sussiste una vera disparità tra le leggi fisiche e i «decorsi della psiche», laddove si può accettare un'identità di metodo e di procedure logico-linguistiche fra tutti i campi del sapere. Ne consegue che, in queste pagine, è già postulato il tentativo di risolvere la relazione tra prassi e teoria in una forma nuova rispetto a quella avanzata dal positivismo. Abbiamo visto che, con il Crepuscolo dei filosofi, l'autore ha cercato di dare risposta a questa problematica, considerando il sapere filosofico attraverso l'indagine psicologica dei singoli pensatori trattati. Nel suo modo di descrivere i percorsi dei grandi filosofi, la filosofia — che dovrebbe muovere da un'astratta razionalità — diventa più propriamente psicopatologia, volta a dare conto dei comportamenti umani di


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Kant, Comte, Schopenhauer e così via. Nella Teoria psicologica della previsione, come nel capitolo finale del Crepuscolo dei filosofi, si afferma che, nell'atto conoscitivo, i bisogni e i desideri hanno sempre la precedenza. La previsione si pone alla fine del processo pratico-conoscitivo, assicurando un consolidamento dei poteri pratici dell'uomo sulla realtà. In altre parole, sono le emozioni umane, i desideri ad essere i soli fatti che determinano l'azione.
   Parlando de La misura in psicologia sperimentale di A. Aliotta, Papini non concorda con lui sul fatto che «le formule debbano ogni volta esser tradotte in termini qualitativi perché assumano un significato psicologico», perché, in altre parole, varrebbe a dire che esse «sono al di fuori della psicologia e di per sé non dicon nulla» 35. Qualche anno dopo, in un altro intervento del 1905, intitolato Avvertimento agli psicologi, il fiorentino si dice ancora insoddisfatto dei frutti portati a maturazione dalla disciplina psicologica per lui, esiste, certo, un cospicuo numero di testi di psicologia che si occupa «dell'osservazione interna e dell'osservazione esterna, del metodo comparativo e della psicofisica», quando invece «nessun psicologo si sia accorto di un metodo il quale non è precisamente né l'osservazione interna né l'esperienza da laboratorio». Il metodo di cui parla Papini è quello che lui chiama «variazione involontaria» che muove dalla convinzione che «non si conoscono bene se non le cose che noi stessi facciamo. Per conoscere, cioè, bisogna prima modificare. [...] quando la nostra volontà le ha mutate quel qualcosa diviene quasi tutto» 36. Il suo disagio deriva dalla constatazione che gli psicologi, come molti scienziati e filosofi, si sono interessati a conoscere ciò che esiste già, piuttosto che a creare quello che non esiste ancora:

   La psicologia ha scimmiottato e derubato, nel corso della sua puerizia, parecchie scienze, quali la matematica, la chimica o la fisiologia, ma ha dimenticato troppo spesso d'ispirarsi agli esempi di una delle forme dell'attività umana, che non è una scienza, ma è tale che se sa riunire e i risultati di tutte le scienze, e gli accorgimenti della pratica più paziente. [...] Essi [gli psicologi] si sono preoccupati di risolvere meglio i problemi conservando gli strumenti vecchi o di risolvere i problemi nuovi cercando di


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usare meglio gli strumenti vecchi che di risolvere meglio i problemi vecchi e nuovi, trasformando gli strumenti vecchi e creando degli strumenti nuovi 37.

   Per pone fine a questo vecchio modo di procedere e di analizzare la psiche umana, Papini invita a guardare all'uomo come ad un «accumulatore di spirito» 38. Auspica la messa a punto, da parte degli psicologi moderni, di una «teoria dell'utilizzazione dell'anima», di uno studio comparativo ed esaustivo su quelle tipologie di uomini che hanno mostrato di essere dotati di poteri spirituali non comuni (come i maghi, gli spiritisti, i medium); in sostanza, uno studio «che ricerchi le condizioni della potenza psichica per trarre precetti e norme e ricette per la vita pratica»:

   È necessario che gli psicologi che credono sinceramente all'importanza di ciò che dicono di studiare seguano questi consigli o meglio l'unico consiglio al quale gli altri si riducono: Trasformate lo spirito! Trasformate lo spirito per conoscerlo; trasformate lo spirito per accrescerlo; trasformate lo spirito per utilizzarlo! A queste condizioni soltanto esso diverrà la più grande forza operante nel mondo 39.

   4. Il Leonardo e l'esperienza mistica

   L'attenzione ai testi mistici è comune a Giuliano il Sofista e a Gian Falco: grazie alle loro letture, nei comparti del «Leonardo», compaiono scritti su Agostino, Juan de la Cruz, Meister Eckart e su Angelo Silesio. Agostino viene segnalato, da Prezzolini, per la sua forza di rinnovamento, di evoluzione, di integrazione, concependo la Riforma (a differenza di Lutero) come un progresso. A lui può essere accostato il cardinale Newmann, la cui opera ha contribuito a rinnovare «l'edificio ecclesiastico» 40. Agostino è destinato a rimanere un punto luminoso, nella spiritualità tormentata dei leonardiani, per aver raggiunto la fede attraverso molti errori e per aver portato a concepire tutta la Chiesa come sede di un continuo sviluppo della verità. E conclude:


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   Con questi spiriti [gli agostiniani] noi siamo in aperta comunione. Il tempo che separa noi da loro è assai minore di quello che ci separa da tanti nostri contemporanei secondo il calendario, ma le cui menti o trogloditiche o invecchiate mi paiono appartenere a tempi d'una favolosa antichità 41.

   Già dalle prime righe di questo articolo, appare la prospettiva dell'eresia, assunta quale fine auspicabile in un processo di amorosa ribellione; si rileva la valenza eretica della dottrina agostiniana, ai lembi estremi dell'ortodossia, tale da richiedere assoluta prudenza nell'essere studiata e insegnata. La personalità di Agostino, come quella di Francesco, del resto, ha guadagnato al cammino della Chiesa l'adesione sia dei mistici razionali che dei mistici attivi, gli amanti delle Confessiones e dei Fioretti.

   Nel numero di marzo 1904 esce un frammento interessante a proposito di Meister Eckart, su iniziativa di Piero Marrucchi 42, dove il mistico tedesco viene prospettato come «sovrano tra i profeti»: nei suoi abbozzi di prediche «ci sono lampi che illuminano profondità inesplorate e lasciano intravedere cieli non mai sognati». La sua dottrina viene celebrata, in queste pagine, come chiamata all'interiore, ossia come invito a trovare nel più intimo dell'anima «la eterna sorgente della vita, il Padre da cui tutto viene e a cui tutto ritorna». L'autore invita il lettore a rifare in sé l'esperienza del divino così come era stata vissuta da Eckart, ovvero a sentire il Creatore in sé, a capire che tutto dipende da quel sentimento il cui possesso «è il supremo problema pratico della vita». Il messaggio di Pietro Eremita non è minimamente scollegato dalla chiamata all'azione di cui scriveva Gian Falco. Tant'è che i peggiori nemici dell'azione creatrice dell'uomo sono, per Marrucchi, l'arresto, il regresso o «l'anima che si distrae e corre fuor di se stessa in cerca di questo o di quello». Per il recensore di Eckart, l'anima trova pace solo nello sforzo continuo che oppone l'essere al non essere, la vita alla morte; ma pare reperibile solo nella solitudine e nel silenzio che precede e accompagna l'atto creatore:

   Vivere è creare: chi non crea, chi si adatta comodamente alle cose come le trova è un disertore di vita. L'insidia più pericolosa contro la vita è la


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finalità esteriore, la ricerca di un frutto delle azioni; con essa l'energia spirituale si degrada e si arresta, la creatura si stacca dal creatore, e, come foglia staccata dal ramo, inaridisce e muore. L'azione mossa dalla cupidigia di cose esteriori non è che una vile contraffazione dell'azione verace che è intima generazione dell'anima, il ritmo divino della sua vita. Chi si ripromette un frutto da godere in pace, qualunque sia la veste sotto la quale egli si ammanta, si merita la taccia di mercante usuraio. M. Eckehart applica questo concetto con una audacia che non conosce restrizioni. Ai suoi occhi è usuraio il devoto credente che aspetta il premio del paradiso, è usuraio il pensatore che appaga con formule e simboli la propria vanità intellettuale. Che importa del paradiso a chi ha la ragione nel cuore? Che importa a chi ha divina a mente di tutto ciò che gli uomini hanno detto o potranno mai dire di Dio? 43

   Tra gli scritti più suggestivi, di carattere mistico, comparsi su «Il Leonardo», troviamo il Saggio sulla libertà mistica di Giuseppe Prezzolini, in cui lo scrittore prova a tracciare un ritratto del mistico, descritto come «uomo nuovo ed illuminato d'una luce tutta differente», come colui che giunge alla coscienza della vita spontanea, manifestatasi negli spiriti individuali. Al di là delle condizioni storiche in cui potrà trovarsi — artista, poeta, uomo d'armi — è un mistico colui che non attribuisce a se stesso la propria creazione, ma attraverso tale opera si manifesta al mondo. L'uomo contemporaneo deve trovare in terra quello che i « materialisti della divinità e i mercanti della grazia» 44 cercano nel paradiso dei cieli. Lo troverà nel più intimo del proprio intimo, in un ritorno a Dio che significherà un ritorno a se stesso, in uno stato di preghiera e di accettazione, di perfetta libertà.

   Ora, le considerazioni di Prezzolini si ritrovano trasposte, in chiave letteraria, specialmente nelle ultime battute de L'uomo che non poté essere imperatore e ne I consigli di Andeto, due dei racconti di Papini confluiti nel Tragico quotidiano. La prima novella si conclude con un elogio all'interiorità che molto rammenta il passo prezzoliniano citato sopra:


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   Il vero mondo non si scopre che nel pensiero, in me stesso, ed io posso esserne padrone quando voglio, purché lo cerchi in me, nel più profondo di me. — E l'uomo canuto si mise, con una lampada accesa, a cercare il vero, il profondo, il perfetto mondo. E quell'uomo — ricordalo bene — fu il padre di tutti i poeti, il padre di tutti i metafisici, il padre di tutti i sognatori 45.

   Ne I consigli di Amleto, il raggiungimento del «supremo mondo» diviene possibile, di nuovo, a seguito di un lungo e laborioso scavo nell'intimo da parte dell'uomo:

   Senza debolezze, amici, senza paure! Lavorate ancora, scavate, frugate, in fondo, giù, ancora più giù, proprio al profondo, nella più intima, profonda profondità. Non lasciate nessuna fibra coperta, fate che non resti un solo ricettacolo intatto, un solo cantuccio oscuro. Cercate ben dentro, mettete allo scoperto ogni piaga ed ogni nervo fino a ogni duro osso. Non vi fermate alle ossa, sapete! Dentro l'osso qualcosa vive, c'è del sangue che scorre, c'è della polpa e del midollo. Non abbiate pietà, amici, nessuna, nessuna, nessuna pietà 46.

   L'esperienza di questo scavo in profondità sembra giungere al vertice quando, nel racconto, l'autore interrompe il colloquio col lettore per soffermarsi a riflettere sulle ombre che la ricerca interiore comporta. A questo punto si avverte, nelle parole dello scrittore, un'affabilità intima che non resta celata: in lui c'è un disgregarsi di certezze e un fermentare sordo di paure antiche, l'onere di scavo che rimanda — con i dovuti distinguo — al gran lavoro dell'azione purificativa dell'anima, descritta nella Noche oscura di Juan de la Cruz:

   Ogni sera, quando le stelle ci fanno più pensosi, quando gli uomini tornano dai lavori e hanno tempo di pensare a ciò che hanno fatto o faranno, quando passano per le vie i canti e i suoni di coloro che non possono dimenticare, noi ci mettiamo dinanzi alle nostre carte e cerchiamo cogli occhi un po' umidi e la mano un po' tremante l'itinerario della nostra vita. Tenibile ansia di queste ore di ricerca! Terribile paura degli abissi e delle paludi! 47


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   5. Occultisti e spiritisti

   Il cambiamento spirituale, di cui i direttori de «Il Leonardo» vogliono dare conto, è anzitutto postulato nella rinascita dell'idealismo e dello spiritualismo, nel risveglio mistico, nella ricomparsa della religione, nel trionfo della vita intima dell'anima e nel dominio dello spirito. La vastità di questa rivoluzione intellettuale, che si sta compiendo in Italia, è ben resa da Papini:

   A Firenze si sta tentando di dare un fondamento pratico all'idealismo magico di Novalis; a Napoli si sforzano di far rivivere l'idealismo assoluto di Hegel; uno dei nostri, Giuseppe Prezzolini, sta componendo la Città Interna che sarà per i nuovi spirituali ciò che la Città di Dio di S. Agostino è stata per i cristiani. E tutti questi movimenti di cui parlo non sono fatti soltanto di opinioni personali e di parole volanti ma si manifestano nelle forme più tangibili ed anche più pratiche. La formazione di varie società per le ricerche psichiche; il ripetersi sempre più frequente di clamorose sedute medianiche; la diffusione, alcuni anni fa abbastanza grande, della Società Teosofica; la fondazione e lo sviluppo della Biblioteca di Firenze (1905); l'apparizione, pure a Firenze, di una chiesa italiana della Christian Science; il tentativo di una colonia mistica e tolstoiana fatto alcuni anni fa presso Roma; la proposta recente della creazione di un Cenobio laico sono i fatti esterni che hanno accompagnato questo ritorno di bisogni spirituali e religiosi fra noi. Ma i segni più evidenti si trovano, naturalmente, fra i libri e i giornali. Da pochi anni è cominciata, soprattutto per opera di A. Costa e di G. De Lorenzo, la propaganda buddistica. Il Rensi la continua nel Coenobium; l'editore Laterza pubblica la traduzione dei discorsi di Gotama e quella di Kokoro di L. Hearn [...] I metapsichisti, dopo il volontario esilio degli Annali di scienze psichiche hanno avuto il loro organo in Luce e Ombra (1901) — i teosofi nella Nuova Parola (1902) — in cui però la teosofia era mascherata da molta letteratura spiritualista, — e ora hanno anche la piccola rivista Ultra (1907).

   Nel 1906 — mentre si danno conferenze sulla cabala e sulla soteriologia presso il circolo di cultura fiorentino della «Biblioteca filosofica» — escono anche un trittico di prose adattate sugli antichi poemi indiani 48 (di alcuni


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frammenti di questi poemi viene allestita persino una traduzione), a testimonianza che, con la smania del miracolo, Papini e la rassegna hanno dato ricetto ad un manipolo di filobuddisti e appassionati di scienze esoteriche: Aldo De Rinaldis, Arturo Reghini, Roberto Greco Assagioli si occupano di occultismo, come del resto se ne interessa Gian Falco 49 sia pure per aborrire dal carattere poco pratico, dall'ingenuità grossolana e dall'indifferenza scettica con la quale viene professato 50. In questa direzione va letto l'intervento di Papini intitolato I sette peccati degli occultisti, dove l'autore non si esime dal dimostrare simpatia per gli spiritisti, i metapsichisti, i teosofici e per tutti coloro che s'interessano ai cosiddetti «problemi dell'anima», di cui tuttavia depreca la mancanza di disciplina mentale e l'abitudine del ragionare. Nonostante l'interesse di Papini per l'occultismo derivi soprattutto dalla contestazione dei nuovi ambiti di ricerca in esso prospettati, egli ne condanna prima di tutto l'eccessivo manichesimo 51, ma anche la «confusione» tra «fatti», «teorie» e «interpretazioni» 52, nonché i troppo facili entusiasmi 53 e anche l'eccessiva presunzione per cui diminuiscono tutte le «volgari conoscenze


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umane», disprezzano «tutte le testimonianze e si meravigliano enormemente quando trovano chi non piega subito la testa e l'intelletto a tutto quello che dicono» 54. Soprattutto i teosofi sembrano credere, secondo Papini, «che tutti gli uomini abbiano detto sempre le stesse cose», attraverso le varie tradizioni, mitologie, fedi e filosofie che rappresenterebbero, quindi, un identico nucleo di credenze. Sebbene la teosofia speri di trovare in questi argomenti la propria verità, non proverebbe che la propria ingenuità.
   Molti degli occultisti, sempre a detta del fiorentino, pur credendo nella reincarnazione e nella perfettibilità dell'anima e, individuando in ciò una possibilità di miglioramento del mondo, non sanno tuttavia servirsi «praticamente delle forze dell'anima 55. Gian Falco si stancherà anche dell'occultismo e soprattutto della batteria dei neo-spiritisti che, risultando sempre più intromettenti, fanno sentire a disagio i due direttori del «Leonardo» che, fino a quel momento, si erano capiti a vicenda come gli implumi di uno stesso nido. Del resto, già in uno degli ultimi interventi sulla rassegna, Franche spiegazioni (A proposito di Rinascenza Spirituale e di occultismo), Papini non tarda ad ammettere una certa diffidenza e stanchezza nel credere ai caratteri principali degli occultisti, alla qualità delle loro espressioni:

   Se le nuove credenze fossero sinceramente sentite se ne dovrebbero vedere gli effetti nella vita e a tutta la predicazione morale degli spiritisti dovrebbe seguire un miglioramento dei caratteri per lo meno dei predicatori. Invece s'io guardo costoro — e non intendo escludere me stesso — vedo ch'essi continuano all'incirca la stessa vita e che molti di loro sono, come gli altri uomini e come i loro avversari, avidi di lode, presuntuosi, arrivisti, avari, intriganti e, se occorre, anche sensuali. [...] Professo umilmente di non essere ancor giunto ad accettare tutte le loro credenze e, tanto meno i metodi coi quali cercano di propagarle. So bene che ciò mi salverà né dalla loro ingratitudine né dai rimproveri dei loro avversari ma non m'importa. Anche questa volta riuscirò ad assaporare l'acre gioia d'esser spiacente a Dio ed ai nemici suoi 56.


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In questo clima l'impegno letterario di Gian Falco si fa più diretto e deliberato. Nello scritto intitolato Marta e Maria 57- modellato sopra il pensiero di Teresa d'Avila, secondo cui «Marta e Maria possono andare insieme perché l'interiore opera nelle cose esteriori» — il critico toscano scrive che l'azione magica (la volontà che non solo agisce ma crea le cose) non è impossibile è, semplicemente, un problema di cultura psicologica, la questione della potenza della volontà sulle intuizioni, che poi è lo stesso assunto che abbiamo rintracciato negli articoli papiniani in materia psicologica e nelle pagine finali del Crepuscolo dei filosofi.

   6. Il fantastico secondo Papini: Il tragico quotidiano e Il Pilota cieco

   Dalla promiscuità tra arte e filosofia — ma anche da una crisi di sovrabbondanza poetica — derivano le due raccolte in prosa Il Tragico quotidiano (1906) e Il pilota cieco (1907), rami bipartiti di una radice sola. Qui, a detta della Bobbio, sono da reperire i segni eloquenti dello stato d'animo dell'autore di Un uomo finito. Per Calvino, sulle tracce di quanto aveva già affermato Jorge Luis Borges, nel Pilota cieco del giovane Papini, «tutto esattezza e negatività», riscontriamo il momento basilare in cui il fantastico italiano risorge a nuova vita, rinunciando definitivamente al proprio provincialismo e inaugurando un importante ciclo novecentesco 58.
   Le letture giovanili, di cui si rende conto in Un uomo finito, sono li assiepate per un fine già accertabile nei racconti fantastici del Tragico quotidiano e del Pilota cieco, nella messa in atto di un rapporto costante tra realtà e immaginazione, verità e finzione che saranno del resto tema dominante della sperimentazione artistica dell'avanguardia primonovecentesca. Amleto, il Demonio, Don Giovanni, il Prigioniero, il Gentiluomo malato, la principessa di Thule sintetizzano il profilo evanescente di una inquietudine libresca, di un torpore che genera mostri. Sono figure letterarie che risolgono dai libri per prestarsi al riferimento dell'esistenza quotidiana. In questi racconti metafisici,


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scalducciati dagli ultimi falò de «Il Leonardo», popolati da incubi, crepati da veri sdoppiamenti di persona, si rintracciano i drammi più fantastici ed assurdi della coscienza: la centralità dello spazio sconfinato del pensiero, il male insidioso della riflessione che lima e del volere che esita, il male d'Amleto, l'ansia rabbiosa dell'apprendista e del ricercatore, l'anticipazione del dramma pirandelliano, della scissione tra apparenza e sostanza, il rifiuto della propria identità; il tramonto di un Don Giovanni ammogliato e ingrigito, compunto e affranto da fare compassione, un marmifero spiaggiato che fu non tanto un lussurioso, quanto un cercatore sconfitto nella ricognizione dell'unico amore e che nascose «sotto l'apparente leggerezza del volubile cavaliere, tutta la rabbiosa tristezza dell'amante non corrisposto». E non è fortuito il fatto che il demonio torni in cicliche figure, ricorrenti nella letteratura giovanile papiniana: prima ancora che nel Tragico quotidiano, il diavolo era stato oggetto di indagine da parte dell'autore e, soprattutto, aveva già i caratteri, l'umore del protagonista de Il demonio mi disse. Si badi a quando Papini, nell'articolo Marta e Maria, apparso su «Il Leonardo», scrive: «Satana è troppo gentiluomo per tendere lacci a chi lo tiene in così alto concetto. Forse, anche, è stanco di noi e della nostra povera vita e non deve provare più gusto a tentarci» 59. Ebbene, questo pensiero anticipa esattamente il momento in cui il demonio, nella novella del Tragico quotidiano, confessa all'Io narrante: «ormai gli uomini non m'interessano più». Nel passo di Marta e Maria, così come ne Il Demonio mi disse, l'«abitudine» ha reso meno feroce il tormentatore degli uomini, che non ha più neppure quell'aspetto mostruoso — caudato e cornuto — che il medioevo gli aveva conferito. Adesso ha il volto di un uomo. Papini, addirittura, ci vede il suo doppio:

   È alto e molto pallido: è ancora abbastanza giovine, ma di quella giovinezza che ha vissuto troppo e che è più triste della vecchiaia. Il suo volto bianchissimo e allungato non ha di particolare che la bocca sottile, chiusa e serrata, e in più una ruga, unica e profondissima, che s'innalza perpendicolarmente fra le sopracciglia e si perde quasi alla radice dei capelli 60.

   Si tratta di un demonio che ha capito che la tentazione è perfettamente inutile. Adesso è l'uomo a cercarlo, non il contrario. L'uomo pecca da solo, di sua spontanea volontà, senza bisogno di sollecitazioni esterne: «[II demonio] li lascia in pace ed essi corrono a lui come l'acqua va giù per la china. Perciò


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non li considera più come nemici da conquistare, ma come buoni e fedeli sudditi, disposti a pagare il loro tributo senza farsi pregare» 61. Diremo anzitutto che, per noi, il Demonio è la trasposizione narrativa del dubbio laico — destinato a rimanere illiquidato in Papini anche dopo la conversione — che arricchisce lo spirito. In questa direzione crediamo vada letta la seguente affermazione dell'autore:

   La conversazione del Demonio è la più profittevole e gradevole ch'io conosca; è di quelle che fanno capire il mondo, e soprattutto il mondo ch'è in noi, assai più dei piccoli e grossi trattati di propedeutica che si leggono alla biblioteca universitaria di Heidelberg 62.

   L'uomo che mira a parificarsi a Dio è una prospettiva suggerita dal diavolo. É un'idea che l'anima si ritrova in consegna dal dubbio critico di cui abbiamo parlato: la voglia di diventare grandi, indipendentemente dal divino. Questa considerazione sembra trovare conferma ancora in un passo Pubblicato in: Il demonio mi disse, in cui viene data una lettura del peccato originale come di una trasgressione limitata, da parte di Adamo ed Eva. Gli uomini sarebbero dunque tutt'ora in grado di divenire degli Dei, qualora decidessero di mangiare ancora, fino alla sazietà, e sino a finirli, i frutti dell'albero proibito, il cui seme è diffuso e ha prodotto robusti alberi anche al di fuori del paradiso terrestre.

   Nelle prose tra il '06 e il '07 — nella cui narrazione più che mai Papini ha operato una dilatazione — è stata constatata l'influenza di Dostoevskij, di Poe e Baudelaire, ma anche i camuffamenti di Laforgue e le Moralités légendaires di Maeterlinck. Non ultime le suggestioni da certa cultura decadente specie dall'Oscar Wilde del Rittratto di Dorian Gray, le cui risonanze sono particolarmente efficaci nel Ritratto profetico di Parole e sangue. E si è scritto sulla interpretazione del motivo del doppio quale momento qualificante della letteratura giovanile papiniana: la pagina scritta è il luogo in cui l'autore riflette e riconosce la propria immagine e recupera la propria identità. A sua volta presenta una propria autonomia, con la quale confrontarsi. Il mito di Narciso e la storia di Dorian Gray offrono esempi sia di un tentativo di cancellare e liberarsi di tale immagine, sia di adeguarsi ed assimilarsi ad essa. Il mondo dell'immaginario prevale su quello della realtà, lo


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precede, si sostituisce ad esso 63. In questo racconto sembra ribaltarsi la situazione che troveremo in Due immagini in una vasca. Mentre in quella novella il personaggio vede precisarsi, sull'orlo dell'acqua ferma, l'immagine di sette anni prima (le sue fattezze sottratte alla corrente tempo), al contrario e simmetricamente nel Ritratto profetico il protagonista si scopre inconsapevolmente a rimirare, nel capolavoro di Hartling, la figura che il suo specchio gli rifletterà sei armi più tardi. Qui, più che mai, la mente non tiene in segreto i suoi balocchi: la scrittura si fa deformazione pittorica, parola e sguardo s'annodano strettamente, i motivi dell'Unheimliche freudiana si corrompono a vicenda facendo del riflesso un ritratto e del ritratto il doppio. Se nelle Due immagini in una vasca l'Io prolifica e trabocca per riconoscersi in «un sé passato da un pezzo» 64, nel Ritratto il collezionista rivede nel quadro «il suo sé futuro di sei anni dopo»: la prospettiva capovolta fa di questi racconti due riproduzioni dello stesso episodio perturbante, due versioni di uno stesso momento rituale esplorato da angolature opposte seppure complementari.
   Secondo Maria Carla Papini le pagine de Il tragico quotidiano, de Il pilota cieco e di Parole e sangue sono quelle maggiormente indicate per rilevare gli ambiti e la portata dell'incontro precoce dell'autore con certa cultura europea, «l'assunzione di tematiche che, affrontando direttamente il rapporto tra reale e immaginario [...] anticipano tempi ed esiti artistici che di lì a poco avrebbero trovato pronta rispondenza nella metafisica dechirichiana, e che si aprono ad una percezione «altra» del reale [...] che preannuncia, sia pur con soluzioni diverse, le premesse di un surrealismo ancor di là da venire e, soprattutto, quelle che saranno poi proprie del realismo magico bontempelliano» 65. Quando nell'Avvertimento posto in testa alle pagine Sul Pragmatismo


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Giovanni Papini definiva «psicologico o magico» il proprio Pragmatismo 66, in realtà dipanava un filo tra le due più importanti avanguardie del Novecento, quella futurista e quella surrealista. Come abbiamo visto dai saggi sulla spiritualità comparsi su «Il Leonardo», il concreto e fantastico, il reale e l'immaginario — esattamente come la volontà e l'azione — per Papini devono obbligatoriamente sorgere dal di dentro e si attestano nella pagina come reperti assegnabili ai piani più profondi dell'anima umana:

   La sorgente del fantastico ordinario è materiale, esterna, obiettiva. Io ho voluto trovare un'altra sorgente. Io ho voluto far scaturire il fantastico dall'anima stessa degli uomini, ho immaginato di farli pensare e sentire in modo eccezionale dinanzi a fatti ordinari. [...] Io credo fermamente alla superiorità di questo fantastico interno sul fantastico esterno degli altri novellieri. [...] L'anima umana è più grande dei più grandi imperi e se ci saranno ancora scoperte da fare nel mondo non le faremo che addentrandoci in essa senza timori. «Sappi vedere — cantava William Blake — il mondo in un grano di sabbia, tutto il cielo in un fiore selvaggio!» Ma il nuovo imperativo è questo: sappi vedere tutto il mondo in te stesso 67.

   Non potremmo comprendere il pregio delle novelle fantastiche di Papini senza considerare il rilievo che la teoria freudiana dell'Unheimliche ebbe sul motivo del doppio accolto ne Il pilota cieco e nel Tragico quotidiano qui esaminati 68. Ci riferiamo specialmente alla relazione che Freud stabili tra la sensazione angosciosa causata dalla lettura del fantastico e il «riaggancio a singole fasi del cammino che il senso dell'Io ha percorso durante la sua evoluzione» 69. In altri termini, ci troviamo di fronte a una «regressione a tempi in cui non erano ancora nettamente tracciati i confini tra l'Io e il mondo esterno e gli altri», un itinerario à rebours che ci riconduce alla fase narcisistica della crescita individuale, rivista alla luce del pensiero arcaico, magico, animistico preso in esame da Freud:


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   Sembra che noi tutti, nella nostra evoluzione individuale, abbiamo attraversato una fase corrispondente a questo animismo dei primitivi, che questa fase non sia stata superata da nessuno di noi senza lasciarsi dietro residui e tracce ancora suscettibili di manifestazione 70.

   Per Freud, «tutto ciò che oggi ci appare perturbante risponde a questa condizione: di toccare tali residui di attività psichica animistica e di spingerli a manifestarsi » 71. A pagare le spese dell'irruzione dell'arcaico nella superficie della coscienza è, chiaramente, il pensiero razionale e la soggettività che in esso trova i suoi fondamenti. Ciò che in origine dava conforto e rassicurazione diviene «perturbante»; quelle antiche soluzioni che Papini, ne Il Crepuscolo dei filosofi, aveva chiamato «strumenti» e che si sono poi dimostrati carenti nel rendicontare il bisogno di rinnovamento dell'uomo novecentesco; strumenti che «non cessano di ricordarci la ferita., mai rimarginata, che volevano suturare; strumenti che, proprio per la funzione che un tempo hanno svolto, mettono in luce la reversibilità di ogni processo soggettivante, denunciano il forale fallimento di ogni strategia di riscatto della presenza unitaria dell'individuo dalla labilità che la insidia» 72. A suffragio di ciò stanno il perturbante e il fantastico come operatori di una dimensione di sinistra estraneità, di distruttività — Calvino parlava di racconto «nero» — dove le credenze arcaiche ritornano malefiche e nemiche 73. Per Freud questo spiega anche come l'alter ego — evocato in origine in qualità di una «assicurazione contro la scomparsa dell'Io» 74- risenta dell'evoluzione tipica dei motivi perturbanti, divenendo così frequentemente una presenza ostile e minacciosa. Spazio privilegiato dell'elaborazione del Doppelgänger da parte di Papini è la novella Due immagini in una vasca, in cui il protagonista ritorna nella «piccola capitale», dove aveva studiato per cinque anni, «solo per rivedere il mio viso in una vasca morta, piena di foglie morte, in un giardino sterile» 75. Un tempo, in quel giardino era solito ritirarsi a studiare e già allora fissava


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spesso i suoi occhi nelle profondità torbide di quelle acque, aspettando che i connotati del suo volto si disegnassero sotto forma di un'immagine speculare capace di irretirlo, di rendergli il riflesso di un riflesso, affondando, con le foglie morte, ogni presunzione di «esistere per proprio conto»:

   [...] Quando ero stanco di leggere o la luce scemava, cercavo di vedere i miei occhi riflessi nell'acqua o contavo le vecchie foglie e seguivo con estatica ansia i loro lenti viaggi al respiro ineguale del vento. Qualche volta le foglie si diradavano o si raccoglievano tutte verso il fondo e allora vedevo dentro l'acqua il mio volto e lo fissavo così lungamente che mi sembrava di non esistere più per mio conto, col mio corpo, ma di essere soltanto un'immagine fissata nella vasca per l'eternità 76.

   Il giardino papiniano, non fruttifero come se fosse al limite di un'eterna invernata, ripropone sorvegliatamente il motivo dell'hortus conclusus — vivo nell'immaginario di molti scrittori decadenti — quale luogo dove trovare «con gli amari segni dell'abbandono, il sublime delle cose defunte, del passato irrevocabile e perduto» 77. Il passato che il personaggio, davanti al cupo ristagno, sente poco a poco rianimarsi attraverso il ricordo, dopo sette anni torna a brillare come un lampo:

   Volli ancora rivedere la mia faccia nell'acqua e mi accorsi ch'era diversa, assai diversa da quella ch'io ricordavo così lucidamente. L'incanto di quella vasca, di quel luogo mi riprese. Mi sedetti sopra una delle scogliere artificiali e colla mano mossi le foglie morte per fare uno specchio più grande al mio volto impallidito e trasfigurito. Stavo da alcuni minuti mirando la mia immagine e pensando alle strane leggi del tempo, quando vidi disegnarsi nell'acqua, accanto alla mia, un'altra immagine. Mi volsi impetuosamente: un uomo s'era seduto accanto a me nella vasca. Lo guardai trasognato — lo guardai ancora e mi parse che mi somigliasse. Volsi ancora l'occhio alla vasca e contemplai di nuovo la sua immagine riflessa sul cupo fondo. In un momento mi accorsi della verità: la sua immagine rassomigliava perfettamente a quella ch'io riflettevo sette anni innanzi 78.


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Ecco emergere, da questo brano, la scottante attualità del Doppelgänger, l'Io di ieri che le acque rilasciano come una peste ammorbante. A ripresentarsi reale è quello che l'Io di oggi deve quotidianamente ricacciare per «differenziarsi dalla fluida e magmatica mutevolezza del divenire e costruire così, nell'armatura dell'immagine speculare, quell'ingannevole parvenza di integrità e stabilità che gli dà la possibilità di riconoscersi» 79.

   Nella gran parte di queste imprese narrative (ma anche nel Pilota cieco) c'è qualche cosa di dolente, un'avaria dell'essere, un vuoto notevole che neppure la ragione riesce a empire. E allora angoscia: «Il tuo male è nello spirito, amico mio, e soltanto nello spirito» dice Amleto all'Io narrante della favola filosofica I consigli di Amleto 80. E dopo: «Curati: ti ripeto che sei gravemente, terribilmente, pericolosamente malato» 81 per poi chiarire che è il pensiero il suo male tormentoso, il «sottile male della riflessione [...] la pallida ombra del pensiero scolorisce ornai il ricco tessuto della vita» 82, proprio quella vita che, più tardi, nel Crepuscolo dei Filosofi, troverà il suo senso soltanto nell'azione e che, nelle pagine di questa fantasia lirica, viene ristabilita sotto forma di «progetto»:

   Accettiamo dunque il carico, non ci stanchiamo di fare e rifare i nostri conti. Ogni giorno pesiamoci sulla bilancia dello spirito, tastiamoci il polso ogni ora, pubblichiamo ogni decade il bollettino della nostra salute o delle nostre malattie! E soprattutto facciamo dei progetti, amici miei. Facciamo molti, grandi, continui progetti. Il progetto non è forse il thè, il caffé, l'oppio, l'haschisch della vita? [...] Facciamo dunque dei progetti, amici! Che la nostra vita sia fatta di piani e di disegni. Che la morte non trovi in noi che promesse, che la vita non sia per noi che un'aspettazione in eterno 83.

   In queste raccolte si trovano anche i principi di quella autodiffamazione incensatoria tipica di Un uomo finito: Papini che si fa brutto e si corbella per via rovescia per interessare, dato che il Tragico quotidiano è proprio basato sull'interesse del lettore:


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   Se tu sapessi quanto mi disprezzo e quanto disperato disgusto ho per la mia anima! Quanto gli altri mi credono superbo, orgoglioso, soddisfatto, io sto pensando soltanto al modo di rendere meno spregevole la mia vita, meno disgustosa la mia anima. Di una sola cosa son qualche volta superbo: del profondo e sincero disprezzo che ho per me stesso 84.

   Nel leggerlo si prova una sensazione dolorosa, come se un masso ci premesse sul cuore: viene demolito il mondo fatto di realtà certe e convenzionali, la realtà tutta viene messa in dubbio, dissolta come battuta dal fortunale, non ribadite ma cancellate le frontiere tra reale e irreale, per aprire l'immaginazione verso le zone impervie, ignote e magiche dove l'essere — nella pretesa di affermarsi oltre ogni margine — finisce per annullarsi. Come se l'esistenzialismo contemporaneo dovesse già nascere. Papini sa come dare credibilità all'irrealtà: ricorre all'amaro dei tamerischi (da empire un libro), comincia dallo stato «tragico» dell'uomo moderno, il Tragico quotidiano appunto, riferendolo con aspro pessimismo e con ebrezza. Ma sfrontato nel criticare quanto inabile a segnalare, nello smarrimento, una via di salvezza, è Pilota cieco a sua volta, atterrato dall'assillo della sua fantasticheria. Lo si capisce già nella scelta del titolo dove si riscontra tutta la tragedia di un uomo che invita a partire e, una volta messosi in marcia, non sa dove approdare. Di questo parere sembra essere anche Angelo Mangini:

   Nello specchio del fantastico l'«Uomo-Dio» vagheggiato da Papini scopre con sgomento che i suoi sogni possono realizzarsi solo in forma di incubi; scopre il volto del suo alter ego un inetto e maldestro demiurgo che rischia ad ogni passo di essere travolto dalle conseguenze del proprio operare e dall'ingovernabile tumulto di forze che il suo gesto ha evocato; scopre, insomma, di aver demolito, insieme ai muri che lo imprigionavano nella sua impotenza, anche tutti i baluardi faticosamente eretti a difesa di una presenza pericolante sul margine dell'orrore e del nulla 85.

   7. Conclusione


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Questi temi riemergeranno anche in altre pagine segnate dall'amplificazione di un Io elefantiaco: prime tra tutte Il prigioniero di se medesimo, L'uomo che ha perduto se stesso (in Parole e sangue). Stessi motivi anche nelle Buffonate, nelle Pazzie del Poeta e nella Sesta parte del mondo, opere bonificate da ironia più mite, da un'idea di paradosso come capriccio fantasioso, e forse smosse da un tono moralistico più spiccato. Potremmo dire di queste prose allegoriche come di un amalgama di immaginazione e di conoscenza difficile da decrittare, dove l'oratoria di Papini, fondante e polemica, è già tutta onorata. È uno stile cui l'autore rimarrà fedele fino a Storia di Cristo e a Sant'Agostino è una prosa battente e numerosa di aggettivi (a rafforzare il solo esatto) che gli è connaturale, perché gli permette di profittare di una vasta libertà d'invenzione e di espressione, soddisfacendo i suoi grilli fantastici, moralistici e dialettici. Questi racconti, «scritti in furia con la volontà di tradurre in miti quasi realistici i suoi vaneggiamenti ghiribizzosi, piuttosto che di fare opera d'arte», ci dimostrano che il pensatore e il disputante — che scambia umori con amori — è sì abile a intuire con acume e perizia ma, soggettivo e immaginoso com'è, pare fatto per l'invenzione e la letteratura prima ancora che per la meditazione filosofica. Fosse così, queste prove narrative sarebbero degli adattamenti letterari dei pensieri magico-mistici a cui si è volto, la conferma che la filosofia può essere un bel pretesto per compiacere il talento di uno scrittore che è nato principalmente per scrivere prima ancora che per filosofare.
   In base alle considerazioni che abbiamo formulato fin qui, concludiamo con l'affermare che, per quanto l'autore abbia intenzione o motivo di riconoscersi un'inclinazione istintiva verso il pensiero astratto, anche il suo interesse filosofico, più che da un'autentica attitudine alla riflessione, deriva dall'esigenza pungente di fare esperienza intellettuale, ma nasce anche — come abbiamo detto — da un'indeterminata chiamata all'azione, dallo slancio — azzardato e stimolante — alla chiarezza del sé; chiarezza che vuole essere affermazione risolta sulla base di una certezza ideale. Oltre alla sua «spericolatezza» c'è fame di verità, di stabilità ideale, di cura spirituale. Questo per darsi pace da un travaglio di fondo. In lui vincono — spartito com'è tra antiprofessionale (polemico) attivismo culturale e voglia sincera di scoperta — una potente ansia d'impegno e l'arte di chiudere le delusioni in astucci sicuri ed eleganti. Forse l'unica conquista profonda di Papini sarà, nell'ultimo periodo, l'incontro con Dio senza una massiccia penalizzazione dell'Io: il riconoscimento del dubbio critico e laico (quale ammissione del limite umano) di fronte alla divinità che gli dà animo. Intanto, del Papini non ancora convertito, la provvisorietà delle sue adesioni immediate a questa o a quella


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corrente ci parla di - una sincera insoddisfazione, di un acuto bisogno di credere. Da qui, forse, la chiara e sostanziosa intuizione di James nelle parole ad Amendola:

   I think that pragmatism can be made — is not Papini tending to make it ? — a sort of Surrogate of religion, or if not that, it can combine with religious faith so as to be surrogate for dogma 86.

   Come a dire che con il ricorso al pragmatismo Papini volesse farsi avventore di altre primavere, disponendosi già al divino e ricercando «nella creazione pratica del personale» l'edificazione dello Spirito. Questo fu il seme.


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